Occasioni

 Lo ammetto, l'ultimo Dpcm mi ha gettato nello sconforto: la chiusura della piscina (di nuovo!), mio indispensabile rifugio per scaricare corpo e mente, è stato un colpo molto duro in questa situazione già così traballante. Per non parlare dello sport dei bambini, che prima sembrava salvo, poi sospeso, poi chissà-cosa-intende-il-decreto, unico sfogo dopo 8 ore seduti.

Pur comprendendo la necessità di fronteggiare la pandemia con tutti i mezzi possibili, e senza voler entrare nel merito della bontà delle decisioni prese, mi sono lasciata prendere dallo scoramento e dal timore di rivivere la reclusione e le privazioni della scorsa primavera.

Poi, una persona molto saggia mi ha suggerito di cercare in questa particolare situazione delle "occasioni". Occasioni per fare qualcosa che ho sempre rimandato, procrastinato, accantonato.

E così ho fatto: se i bambini sono tristi di non poter più frequentare gli allenamenti di calcio, cerchiamo di sfruttare le biciclette, ci sono anche dei corsi di mountaibike, come ho appena scoperto. Se non si può andare in giro a fare "Dolcetto o scherzetto?", nulla ci vieta di decorare la casa ancora più degli anni passati, di preparare una cena a tema, di passare la serata davanti a un film pauroso (ma entro i limiti del "posso venire a dormire nel tuo letto?"!).

E visto che gli impegni extra sono azzerati, invece che una doccia veloce potrò concedermi un bagno con tanta schiuma, provare nuove ricette e, perché no, una cosa che mi ha sempre incuriosito ma non ho mai provato: una lezione di Yoga. Ovviamente, su Zoom!


Ferite

Guardo i miei figli aspettare con ansia di veder comparire i rispettivi amici del cuore, fuori da scuola, per entrare insieme. Li guardo camminare con passo sbilenco sotto quegli zaini più grossi di loro, con lo sguardo ancora un po’ assonato per la sveglia alle 7:00 ma con l’entusiasmo di entrare in classe, vedere in volto la maestra, sentire la sua voce senza interferenze, condividere il tempo con i propri compagni. 

E mi chiedo quanto durerà. Mi chiedo per quanto potranno ancora godersi questa “pseudo-normalità” prima che qualcuno decida che bastano uno schermo e un collegamento wi-fi per fare scuola, che dichiari che una classe con i banchi distanziati e rigide procedure da seguire sia più pericolosa di una sala scommesse aperta al pubblico per svariate ore al giorno.

Non so nulla di politica, malattie infettive né virologia, sono soltanto una madre che lavora e che si sente in colpa perché si accorge alle 22:00 che nel quaderno di italiano resta solo una pagina libera e non ne ha uno di ricambio, ma so quanto sia angosciante vivere costantemente in questa incertezza.
Non mi sento di fare previsioni, né ottimistiche né pessimistiche, sul prossimo futuro. Mi chiedo soltanto cosa conserveranno i miei figli di questo periodo assurdo in cui un abbraccio ha la valenza di un gesto negativo e da evitare, in cui non possono fare una cosa spontanea e banale come “giocare a prendersi”, in cui anche una partita di calcio è demonizzata, ma soltanto se “amatoriale”. 

Mi chiedo se, finito tutto questo, avremo di nuovo il coraggio di abbracciarci, di stringerci le mani, di baciarci sulle guance quando ci incontriamo, o se il timore sarà ormai così radicato da impedircelo, da farci istintivamente anteporre il pericolo all'affetto e alla socialità. E non posso che provare una profonda tristezza per quello che, nostro malgrado, i miei figli stanno (stiamo tutti!) vivendo, con la speranza che non lasci ferite troppo profonde.

Occasioni

Per quanto mamma trafelata sempre per definizione, ci sono determinati periodi che sembrano mettere particolarmente alla prova le mie capacità di sopravvivenza e di giocoliera-equilibrista in ambito lavorativo e familiare. 

Me ne accorgo in primis dalla densità di promemoria inseriti in Google Calendar (quando, sotto quelli visualizzati nella pagina del mese, compare minacciosa la dicitura "+7", come a dire: "non penserai che le cose da fare e ricordare siano soltanto queste, vero? Illusa!").

E poi da quel costante senso di affanno, foriero di notti insonni, che non mi abbandona nemmeno da ferma.

Per una incredibile coincidenza, questi periodo precedono sempre un evento a cui tengo, in questo caso la prima comunione del nano grande. La settimana prima, quando vorrei potermi occupare, tra le altre mille cose, di bomboniere, menù, torta, confetti e saio, succede che il lavoro richieda gli straordinari, che sopraggiungano feste di compleanno e impegni extra, che la baby sitter ti molli per dedicarsi ad impegni più appaganti e redditizi, che la macchina ti lasci a piedi, che gli invitati facciano i capricci... 

Addio sogni di gloria: shopping, piscina, bagno rilassante, smalto alle unghie, parrucchiere, per arrivare in chiesa con un aspetto meno stanco e trafelato. Anche la dieta è andata in fumo, con lo stress sfogato su cioccolato e carboidrati, o pranzi veloci ingurgitati senza alzarsi dalla scrivania. Tutto ciò che sono riuscita a fare è stata ordinare su Amazon una matita per il contorno occhi, sperando di non trasformarmi in un panda, viste le mie capacità di make up artist!

Tocca ridursi all'ultima mezz'ora di pausa pranzo utile per cercare in un tour forsennato (che con la mascherina è una prova di sopravvivenza per davvero!) un outfit quanto meno decente per i nani, che non preveda jeans strappati e sneakers con la punta grattugiata. Missione miseramente fallita, immagino già i commenti delle nonne...

Buon compleanno Principessa

L'ho realizzato ieri sera a mezzanotte, che giorno era. Che non avrei fatto a gara per essere la prima a mandarti un messaggio di auguri nella chat WhatsApp "Family". Ma solo stamattina il dolore si è fatto insopportabile, il mio cuore, mai aggiustato del tutto, si è spezzato di nuovo, e non riesco a smettere di piangere, anche se so che non vorresti vedermi triste.

Ho davanti agli occhi il tuo musetto, i tuoi occhi sempre sorridenti, risento la tua voce dire "Zia, ti ho fatto un disegno". Ripenso all'ultima volta che ti ho vista giocare, a come mettevi in riga quei maschiacci dei tuoi cugini, alle tue feste di compleanno, ai regali acquistati nel tuo negozio preferito. A quanto amore sei stata in grado di dare in così poco tempo, troppo poco.

Buon compleanno, Principessa. Tanti baci dalla zia.

Cominciamo bene...

Ho atteso con trepidazione la ripresa della scuola, tra mille dubbi e incertezze, da parte mia sopratutto speranze. Ho già espresso il mio pensiero sulla DaD, la didattica a distanza dal nome canzonatorio, quasi sarcastico per le mamme a casa e in telelavoro. Desideravo che i miei figli tornassero a vedere le loro maestre senza uno schermo di mezzo, a sentire le loro voci senza interferenza, a parlare con i propri compagni nonostante la distanza e la mascherina. Ebbene, con mille indicazioni e un po' di preoccupazione di dimenticare qualcosa (gel igienizzante: c'è, borraccia personale: c'è, mascherina di riserva: c'è, libri etichettati: fatto, merenda da consumare seduti in un minuto: presa, quaderni: ops!), i nani sono tornati in classe!

E con un tempismo che neanche le ferrovie svizzere, è tornato il raffreddore. I miei figli sono stati sani come pesci per 6 mesi. Mai uno starnuto né un colpo di tosse, ho perfino sentito la mancanza della voce della pediatra, solo una lunghissima ma per fortuna inutile visita al pronto soccorso giusto per non farmi pensare che mi avessero sostituito i bambini a mia insaputa.

E invece, il 14 settembre, il giorno tanto atteso, il nano piccolo sfoggia un attacco di allergia che sembra voler recuperare il tempo perduto: naso chiuso e asma, il nostro kit di ben tornato!

Inizio la ben nota procedura, antistaminico incluso, e preparo l'autocertificazione per ricordare alle insegnanti che il nano è un soggetto allergico (dopo 7 mesi, è già tanto se si ricorderanno di lui...), foglio che rimarrà per giorni nel diario del suddetto nano. 

Ma questo è solo l'inizio, perché l'altro nano, solidale per la prima volta nella sua vita con il fratello, rilancia, e al raffreddore aggiunge la tosse e un po' di febbre.

Inizio a pensare che più che tempismo, si tratti di vera e propria sfiga! 

Immagino già gli operatori sanitari vestiti di bianco, più bardati di Mac Taylor sulla scena di un crimine in CSI New York, fare irruzione in casa per farci i tamponi, prevedo il panico seminato tra i compagni di scuola e di calcio, perché la distanza di un metro, per i bambini, è davvero relativa se non stanno seduti in un banco. Mi vedo già andare in ufficio con una lettera scarlatta, la U di untrice, attaccata alla camicetta, fare il bagno nell'amuchina e dare fuoco ai vestiti sul poggiolo, scenario che rende l'incubo pidocchi un diversivo tutto sommato accettabile.

Considerata la frequenza dei raffreddori nella mia famiglia, non mi resta che abituarmi e rassegnarmi, o cercare un precettore... 


Imparare

Si usa spesso dire che fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo, e non posso che confermarlo. Si procede per tentativi, è un mestiere che si impara svolgendolo, non esiste la ricetta magica che vada bene per tutti. 

Spesso mi chiedo se sono (stata/sarò) in grado di educare bene i miei figli, di dare loro abbastanza fiducia in se stessi per sentirsi sicuri, ma non troppa da renderli arroganza. Abbastanza affetto per sentirsi profondamente amati, ma non eccessivo con il rischio di renderli troppo dipendenti. Abbastanza confidenza per farli sentire sempre liberi, capiti e appoggiati, ma non troppa, per non rischiare di perdere autorevolezza e rispetto.

Sono tanti i dubbi e difficili gli equilibri, certo condividere l'esperienza con un valido punto di riferimento aiuta, ma forse ciò che aiuta di più è imparare da se stessi, dalla propria esperienza. Prima che genitore sono stata figlia, e le ferite, anche quando si rimarginano, lasciano qualche cicatrice. Da queste si può partire, posso ricordare cosa è mancato - e spesso ancora manca -, cosa faceva - e fa - ancora soffrire quando non ero mamma ma figlia. E provare a correggere, in qualche modo.

Questo non mi renderà un genitore perfetto, senza dubbio, ma almeno diversamente imperfetto.

Vorrei

Vorrei insegnare ai miei figli che salire sul carro dei vincitori non significa essere vincenti. Che è meglio stare in un posto meno bello con le persone giuste, che in un posto figo con le persone sbagliate.
Vorrei insegnare ai miei figli che è giusto difendere le proprie idee ed essere coerenti, ma che solo gli sciocchi non le cambiano mai.
Vorrei insegnare ai miei figli che non sempre chi sorride è felice e che non sempre chi piange è triste. Che le lacrime non sono qualcosa di cui vergognarsi, ma uno sfogo salutare e una dimostrazione di sensibilità, anche se ormai certi sentimenti sembrano non avere più valore.
Vorrei insegnare ai miei figli che quando qualcuno cade, non va deriso, ma gli va porta una mano che lo aiuti a rialzarsi. Che è giusto, e bello, ridere con qualcuno, non di qualcuno.
Vorrei insegnare ai miei figli che non tutti coloro che si dichiarano amici lo sono per davvero, ma che quando lo sono davvero, gli amici sono il dono più prezioso.
Vorrei insegnare ai miei figli che i valori più importanti vanno oltre l'apparenza, e che valgono molto di più sebbene siano meno visibili.
Vorrei insegnare loro ad essere felici, ma questo dovrei impararlo io per prima, pertanto gli auguro di essere, anche in questo, più bravi di me.

Silenzio

Dopo 3 mesi esatti, mi ritrovo a casa completamente da sola. I bambini sono stati recapitati nel giardino della Nonna, con la speranza che prendano un po' d'aria e soprattutto un po' di sole, e perdano quel colorito bianco-grigio.
Il silenzio che regna in casa è così surreale che per un attimo, concentrata sul lavoro, mi sono preoccupata di non sentirli (pessimo segno, di solito!) e di essermi persa qualche collegamento con le lezioni online.
Alla fine, insoddisfatta del rumore di trapano che viene dal palazzo di fronte come unica compagnia, ho acceso la radio. Chiamerò per chiedere agli speaker di urlare "Mamma!" di tanto in tanto, in modo da affrontare questa novità in modo più graduale!

Beata te che stai a casa

"Beata te che stai a casa!", mi sento dire continuamente. Come se in questo periodo, stare a casa significasse davvero potersi dedicare a sé, fare quelle cose che in condizioni normali si rimandano sempre. Leggere quel libro che prende polvere sul comodino, imparare una lingua o fare pilates con un corso online.
Beata me, è vero, perché ho la fortuna di aver mantenuto il mio lavoro, perché non rischio il contagio come medici e infermieri, perché tra le mura di casa non sudo sotto camici e mascherine per tante ore consecutive.
Ma non sono in vacanza, tempo per me ne ho quanto prima: zero.
Passo la giornata seduta davanti al PC, e mentre rispondo alle email di lavoro sembra di essere a Chi vuol essere milionario: "Mamma, cos'è la vescica natatoria?", "Mamma, che differenza c'è tra viola e violoncello?". "Mamma, ora il PCserve a me", "Mamma, non trovo la matita rossa". 
Soffio nasi, scarico, stampo e ricarico schede, proietto video e cerco materiale di recupero per i lavoretti.
Nella mia mezz'ora di pausa pranzo, invece che ingurgitare un tramezzino davanti al PC, scaldare gli avanzi della cena della sera prima nel microonde o mangiare velocemente un'insalata direttamente sulla scrivania, mi trovo a dover preparare il pranzo per 3 o 4 persone, apparecchiare, sparecchiare, variare...
Non sono un eroe, non sono io a mandare avanti l'Italia, ma sono comunque stanca di essere denigrata: a chi continua a farlo, offro una settimana di smart working e didattica a distanza. E per i primi 10, una canzoncina sulle stagioni in inglese in omaggio!

Didattica a distanza

Dopo due mesi, un nuovo portatile e numerose figuracce, la gestione della didattica a distanza sta migliorando. 
Il mio responsabile, durante una telefonata, ha ascoltato una rissa in diretta con relativo pianto del nano piccolo nel mio orecchio e suo silenzio imbarazzato. 
Le maestra di inglese ha sgridato mio marito in diretta per i rumori di sottofondo... ma a parte questi piccoli intoppi, tutto procede.
Fortunatamente, i nani non hanno video lezioni in contemporanea, così, per evitare che si disturbino a vicenda, sfrutto il meraviglioso canale di Sky "National Geografic".
Vengo interrotta da decine di entusiastici "Guarda, mamma!" e "possiamo andare in India a caccia di serpenti?" o "Io voglio andare in elicottero con Bear Grills", ma è comunque un buon compromesso.
Anche quando ho dovuto assistere al parto di una mucca con relative complicanze e domande scomode da parte del nano grande su concepimento, utero e spermatozoi. 
Anche quando il nano piccolo si è disperato per aver scoperto che l'adozione a distanza di una tigre non implicava che ci venisse recapitato a casa un cucciolo tramite corriere espresso. 
Anche quando devo frenare l'entusiasmo a ogni pubblicità, e l'insistenza a comprare qualsivoglia oggetto reclamizzato, dall'aspirapolvere di una nota marca ("Mamma, questo ci serve, va da solo!") all'integratore che contribuisce alla funzionalità della prostata. 
Anche quando mi è toccato sentir dire al nano grande, entrata nella stanza da cui era collegato per l'interrogazione di geografia per recuperare l'astuccio del piccolo: "Scusi Maestra, mia mamma mi disturba".

#andràtuttobene ...ma quando?!

Due mesi senza scuola, due mesi di "didattica a distanza", di schede da scaricare, stampare, rimandare (ma non tutte!), di link a cui collegarsi e video da vedere, di registro elettronico in cui fare la caccia al tesoro delle consegne a qualunque ora del giorno e della notte. Maestre e genitori che si improvvisano informatici per cercare di far restare i bambini connessi con la scuola e tra di loro, per dare una impossibile parvenza di normalità: mancano i banchi, la ricreazione, lo scambio di gomme e temperini, i richiami e lo sguardo benevolo della maestra.
Manca, a me, il tempo di poter gestire tutto, la capacità di non perdere il filo delle consegne senza orari, la possibilità di seguire i nani mentre fanno i compiti, compilano le schede e imparano - ci provano - nuove nozioni. 
Perché certo che so fare le sottrazioni a due cifre, ma un conto è saperlo, un conto è spiegarlo.
Così come l'uso dell'apostrofo, dell'accento, la divisione in sillabe, l'area del triangolo: sapere e insegnare sono due cose molto distanti, e io sono una mamma, non un'insegnante.
Una mamma, tra l'altro, che lavora a tempo pieno. A casa, certo, in "smart working", ma la sola presenza fisica non basta per gestire due nani in due classi diverse.
Quindi mi ritrovo a battere le mani per dividere in sillabe mentre leggo il comunicato della Regione, sento ripetere il primo settore e i parallelogrammi mentre rispondo alle email, ascolto le canzoni sui "feelings" mentre cerco di concentrarmi sulle richieste del Capo.
Fino a qui tutto bene, si fa per dire, perché non mi vede e non mi sente nessuno, e se il mio cervello prende la forma di due uova strapazzate è soltanto un problema mio!
Tuttavia avere due nani che litigano alle tue spalle mentre partecipi a una riunione su Skype potrebbe risultare poco professionale, così come veder sbucare due musetti curiosi su Zoom.
Le figure peggiori, però, le faccio proprio io. Che cosa penseranno le maestre quando, davanti a uno schermo nero e silenzioso, ma solo per me, mi sentono gridare in preda al panico "aiuto, non funziona niente" o imprecare "maledetto iPad!" se non peggio? 
O quando sentono sibilare in sottofondo "stai seduto composto!", "Ci senti? Ci vedi? Sei collegato?"
Mi lamentavo dello stress delle trasferte e dell'ansia pre-eventi, ma lo stato di esaurimento a cui arrivo la sera, dopo una giornata a ricordare chi deve fare cosa, per quando, che cosa va corretto in autonomia e che cosa va rimandato alle maestre, tra un "ho fame", "ho sete", "non trovo gli occhiali", "dov'è il libro" mi fa sentire la nostalgia del male ai piedi per le 12 ore passate in tacchi e tailleur.
Ora scusate, ma dall'iPad mi giunge la voce della maestra che mi sta richiamando per invitarmi a parlare più piano e non disturbare la lezione di geometria!

Voglio andare in ufficio!

Dopo un solo pomeriggio, ho capito che lo smart working non fa per me.
Già lo sospettavo, e anche i miei capi, credo, quando hanno dovuto cacciarmi a forza dall'ufficio a seguito dell'ultimo decreto che impone, per quanto possibile, di evitare gli spostamenti e di favorire il "lavoro agile".
Basta un week end chiusi in casa per influenza o brutto tempo per farmi sentire agli arresti domiciliari, figuriamoci tre settimane abbondanti in cui il momento più eccitante della giornata sarà uscire a buttare la spazzatura, sempre se vinco a testa o croce con il marito.
Non sono una workaholic, tutt'altro! Mi lamento sempre della mia vita frenetica e degli incastri impossibili.
Sogno il part time da una vita (e continuerò a farlo!), ma la prospettiva di reclusione fino a "data da destinarsi" mi distrugge, anche se è per una buona, ottima causa.

Certo, è un'occasione imperdibile per godersi la famiglia e i bambini, ma lavorare con un nano che ti ruba le cuffie perché "sono perfette per giocare alla Playstation con Pietro, così ci sentiamo e ci parliamo!", mentre l'altro ti chiede l'acqua, i fazzoletti, la maglietta preferita così si cambia per la terza volta in un'ora (tanto ho tutto il tempo di fare i bucati), la radice quadrata di 144, Dov'è il mio megalodonte?, Mamma ma tu c'eri quando c'erano i dinosauri?, Tu lo sai come si chiama veramente King Kong? ecco... no, non ce la posso fare.
Il tutto condito dal delirio delle chat della scuola, due nani, due classi, una gara a chi posta prima le fake news - offendendosi quando viene fatto notare che Donna Moderna non ha lo stesso peso del Ministero della Salute o dell'OMS -, architetti che si improvvisano virologi, compiti scambiati come le figurine dei calciatori mancanti.
Sono negata, negatissima, nei lavori manuali, che infatti delego sempre alla nonna, un vero genio creativo. 
Potremmo impastare, cucinare, sfornare dolci e biscotti, ma so già che finirei per mangiarli tutti io, e da quarantena a quarantina (di kg in eccesso) è un attimo. 
Tanto più che non posso nemmeno andare in piscina, e i miei tentativi di ginnastica casalinga mi hanno portato a un eccesso di acido lattico nelle gambe (eppure pensavo che l'acquabike servisse a qualcosa!) che da due giorni mi muovo con la scioltezza di Pinocchio (in versione burattino di legno, naturalmente).
Insomma, qualcosa ci inventeremo, intanto vado a fare la differenziata!