Ferite

Guardo i miei figli aspettare con ansia di veder comparire i rispettivi amici del cuore, fuori da scuola, per entrare insieme. Li guardo camminare con passo sbilenco sotto quegli zaini più grossi di loro, con lo sguardo ancora un po’ assonato per la sveglia alle 7:00 ma con l’entusiasmo di entrare in classe, vedere in volto la maestra, sentire la sua voce senza interferenze, condividere il tempo con i propri compagni. 

E mi chiedo quanto durerà. Mi chiedo per quanto potranno ancora godersi questa “pseudo-normalità” prima che qualcuno decida che bastano uno schermo e un collegamento wi-fi per fare scuola, che dichiari che una classe con i banchi distanziati e rigide procedure da seguire sia più pericolosa di una sala scommesse aperta al pubblico per svariate ore al giorno.

Non so nulla di politica, malattie infettive né virologia, sono soltanto una madre che lavora e che si sente in colpa perché si accorge alle 22:00 che nel quaderno di italiano resta solo una pagina libera e non ne ha uno di ricambio, ma so quanto sia angosciante vivere costantemente in questa incertezza.
Non mi sento di fare previsioni, né ottimistiche né pessimistiche, sul prossimo futuro. Mi chiedo soltanto cosa conserveranno i miei figli di questo periodo assurdo in cui un abbraccio ha la valenza di un gesto negativo e da evitare, in cui non possono fare una cosa spontanea e banale come “giocare a prendersi”, in cui anche una partita di calcio è demonizzata, ma soltanto se “amatoriale”. 

Mi chiedo se, finito tutto questo, avremo di nuovo il coraggio di abbracciarci, di stringerci le mani, di baciarci sulle guance quando ci incontriamo, o se il timore sarà ormai così radicato da impedircelo, da farci istintivamente anteporre il pericolo all'affetto e alla socialità. E non posso che provare una profonda tristezza per quello che, nostro malgrado, i miei figli stanno (stiamo tutti!) vivendo, con la speranza che non lasci ferite troppo profonde.

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