Sveglia per tutta la famiglia
Preparare la colazione
N.B. MANCANO MENO DI DUE MESI ALLE FERIE!!!
Sveglia per tutta la famiglia
Preparare la colazione
È arrivato un momento, nella mia vita, in cui dopo tanto tenere duro, dopo troppi anni trafelati, ho detto "basta, sono stanca, non ce la faccio più". Un po' come quando, da bambini, si diceva "pugno"!
Ho avuto bisogno di aiuto anche per ammette di avere bisogno di fermarmi, perché a furia di essere trafelata, avevo smesso di considerare altre opzioni.Di recente il mio scooter aveva iniziato a fare un rumore strano... così evidente che il nano piccolo, mentre lo portavo a tennis, aveva espresso la sua preoccupazione. Forse nella vana speranza che non fosse niente di grave, che si risolvesse da solo, o a causa della paura di dover rinunciare al mio unico e irrinunciabile mezzo di trasporto, ho aspettato alcuni giorni per portarlo dal meccanico. Giorni fatali: si è spento prima di arrivare a destinazione (a spinta...).
L'amico che lo ha preso in carico (se esistesse un premio Nobel per la gentilezza, lo candiderei senza esitazioni) mi ha parlato di catena di distribuzione e valvole, ma, vedendo il mio sguardo vacuo, ha sintetizzato "hai spaccato tutto! La prossima volta, appena senti un rumorino, fermati subito!".
Questa mattina mi sono svegliata piena di dolori: alla solita ernia si è aggiunto un dolore più diffuso che parte dal collo e si irradia per tutta la colonna vertebrale, le spalle e le braccia. Non riesco quasi a muovere il gomito destro.
Questo in aggiunta alla consueta stanchezza, ai sintomi dell'allergia, allo stomaco più arrabbiato di me.
Non faccio nessun rumorino, prendo un antinfiammatorio e vado avanti. Nella speranza che non succeda anche a me di sentirmi dire, troppo tardi, "hai spaccato tutto, la prossima volta fermati prima".
Di solito, dopo una giornata infinita (sveglia alle 6:30, rientro a casa 13 ore dopo) e particolarmente stressante (l'ennesima), il mio umore è pessimo, non sogno che il letargo e tutto mi sento tranne che molto fortunata.
Stasera invece ho imboccato, credo del tutto casualmente, la strada della leggerezza.
Non mi sono arrabbiata (non più del dovuto, comunque) quando mio marito si è dimenticato di andare a prendere il nano piccolo al rientro dalla gita scolastica. Forse non ne ho avuto il tempo (e il fiato, essendoci andata io, letteralmente, di corsa - per fortuna in discesa), forse ho preferito farmi travolgere dai racconti entusiasti del nano su giraffe, pinguini, panda rosso, capre e pony.
Mi sono fatta coccolare da un bicchiere di vino rosso, anzi due (a mio marito piace vincere facile) che ha cancellato tutti gli intoppi di oggi e le ansie per domani.
Mi sono fatta contagiare dalle risate sciocche che hanno travolto entrambi i nani nel sentire il nome di un esame che dovrò fare domani (divertente soltanto nel nome, garantisco).
Il nano grande ha messo da parte la delusione per la sconfitta nel torneo a cui teneva tanto per trasformarsi in un comico, tutto per me: trovarlo nella perfetta posa del discobolo quando sono entrata in bagno per l'ennesimo "sbrigati a fare la doccia" è stata la cosiddetta ciliegina sulla torta.
Ultimamente faccio fatica a guardare la TV dopo cena senza addormentarmi. Non mi era mai successo prima, anzi, prendevo in giro mio marito perché quello che si addormentava sul divano, di solito, era lui.
Da alcune settimane, invece, non riesco nemmeno a veder finire un'episodio che dura meno di un'ora. Le mie palpebre cedono e io crollo, anche se mi sforzo di stare seduta ben dritta.
Di notte, invece, dormo poco: mi sveglio molte volte, e al mattino, quando suona la sveglia, non sono affatto riposata e vorrei nascondermi sotto il piumone.
La stanchezza non si misura, non si vede, non ha soluzione: non posso posticipare la sveglia, non posso evitare di svegliare i nani che, da soli, non si alzerebbero mai per andare a scuola. Non posso esimermi dal preparargli la colazione, dal ripetere una dozzina di volte di pettinarsi (pratica evidentemente ritenuta del tutto inutile), dal mettergli la merenda nella cartella, dall'andare a lavorare e fare la spesa.
La stanchezza aspetta la sera, dopo che sono tornata a casa, ho steso/ritirato/stirato il bucato, preparato la cena, sparecchiato e riordinato, ripetuto una mezza dozzina di volta di mettere in ordine la camera (pratica chiaramente ritenuta del tutto inutile). Sta lì e mi aspetta.
Aspetta che io mi butti sul divano per arrivare a dirmi "ehi, mi hai ignorato finora, ma adesso tocca a me, scordati pure di guardare uno o addirittura due episodi della serie su Netflix!"
La stanchezza è subdola, non si fa vedere da nessuno: non dai tuoi datori di lavoro, che anche se ti trovi a fare il lavoro di tre persone da sola, "tanto ce la fai". Non di chi ti vuole sempre accogliente, sorridente, accomodante, disponibile perché se no sei "un'asociale", sei "sempre scontrosa", e "che brutto carattere hai".
No, la stanchezza non si fa vedere, non si fa notare con una fasciatura, il gesso o le stampelle. Al massimo due occhiaie da panda, ma quelle le hai sempre, che differenza fa.
La stanchezza non si può curare, perché se vai dal medico a dirgli che dormi male, che hai mal di stomaco, mal di testa, al massimo ti consiglia un sonnifero, un antispastico o un antidolorifico, ma il problema di fondo rimane.
Perché, che quando sei sola dalla stanchezza ti viene da piangere non glielo puoi dire: sembreresti una persona debole, una squilibrata. Che un week end di riposo (riposo... tra compiti, tornei di tennis e partire di calcio) non ti basta, che vorresti andare in letargo, nemmeno: non si può, a lavorare ci devi andare, lo stipendio ti serve.
E poi, chi lo dice che sei stanca? Non c'è mica un referto, un certificato.
Continui a fare tutto quello che fai sempre, tutto quello che ci si aspetta... sì, hai bruciato la cena, e anche il mestolo, e anche la tua mano, ma sono cose che capitano, no?
Però, a piangere, vai un po' più in là, che nessuno ti veda. Davanti agli altri, sorridi, per favore.
Oggi il nano grande ha preso due insufficienze in altrettante interrogazioni. Me lo ha comunicato il registro elettronico prima che potesse farlo lui.
Mi è salita una rabbia sproporzionata: per fortuna sono al lavoro e avrò qualche ora di tempo per smaltirla prima di vederlo e parlargli di persona. So che sarà già abbastanza dispiaciuto.
Riflettendo, mi sono resa conto che la rabbia non è dovuta ai risultati in sé: ha un'ottima media, di norma prende sempre voti alti e professori e professoresse ai colloqui erano tutti soddisfatti. Che la reazione più sensata sarebbe pensare che non dipende da me, che è lui a doversi impegnare maggiormente, che potrà sicuramente rimediare nelle prossime occasioni, che un cinque non è certo una tragedia. Ma è una miccia che innesca il mio senso di colpa.
Perché non riesco a seguirlo quotidianamente nei compiti, perché quando torno a casa dopo 10 ore di lavoro non gli chiedo di ripetermi la lezione perché desidero solo un momento di decompressione e di silenzio. Perché, anche quando ci sono, faccio troppe cose insieme: con una mano stiro, con l'altra scrivo la lista della spesa, con un orecchio ascolto il nano grande e con l'altro il nano piccolo.
Sono loro che devono imparare ad autogestirsi, come ho sempre fatto io in tutta la mia carriera scolastica. Eppure... eppure il senso di colpa grava ancora su di me.
Dicono che del tempo non conti la quantità, ma la qualità: ma io mi sento manchevole anche nella qualità.
È il senso di colpa delle madri che lavorano, o almeno è il mio, che non mi sento abbastanza presente, attenta. Madri, non genitori, giacché non ho mai conosciuto un padre con i sensi di colpa perché il lavoro non gli lascia il tempo di seguire i propri figli nei compiti.
Come ha scritto la giornalista americana Amy Westervelt, nel suo libro “Dimentica di avere tutto”: Ci aspettiamo che le donne madri lavorino come se non avessero figli e crescano i loro bambini come se non lavorassero.
È esattamente così, ma io non ci riesco.
In questi giorni leggo molti commenti sulla tragedia del neonato morto soffocato perché la sua mamma si è addormentata mentre lo aveva nel letto con sé. Posso solo provare a immaginare il dolore e lo strazio di questa donna, mentre posso dire di conoscere perfettamente la sensazione di spossatezza e stanchezza che si provano dopo un travaglio e un parto.
Che non lo conosca il personale che, per professione, dovrebbe assistere le neo mamme, è invece per me del tutto incomprensibile.
Non sempre, ma, in molti casi, partorire non è una passeggiata: spesso il travaglio dura molte ore, spesso, nonostante l'epidurale, il dolore è sfiancante. Spesso non tutto va come dovrebbe e dopo ci sono i punti che tirano, i morsi uterini che non ti danno tregua, un pianto che non sai come calmare. Spesso, dopo, sei semplicemente sfinita.
Se si tratta del primo figlio, spesso ti senti anche impreparata su come gestire uno scricciolo che hai appena visto, che comunica in una lingua diversa dalla tua, a cui devi ancora prendere le misure e di cui devi ancora fare davvero conoscenza, nonostante i libri, i manuali, i corsi preparto e le super-mamme che ti dicono che tutto viene naturale.
Allora mi chiedo come si possa lasciare una madre sola con il suo bambino, non darle la possibilità di riprendersi, di avere un familiare accanto?
La risposta che "le donne hanno sempre partorito" non basta: hanno sempre partorito, ma non da sole.
Io ringrazio la buona sorte di aver avuto una madre che ha colto i segnali della mia depressione post parto, una suocera che al rientro dall'ospedale mi ha fatto trovare il frigorifero stracolmo e la casa pulita, una sorella che, quando non riuscivo ancora a stare in piedi, coccolava mio figlio come se fosse il suo; ringrazio di aver trovato un'ostetrica che mi ha chiesto: "vuoi che me lo porti di là un paio d'ore, così riposi?".
Ringrazio di aver avuto un marito che mi ha appoggiato nella scelta di smettere di allattare quando non ne potevo più della mastite, dandomi il cambio con il biberon della sera tardi. Di aver avuto una pediatra che alla prima visita del nano si è accorta anche di me, dichiarando "il bambino sta benone, è la mamma che mi preoccupa".
Ma so che sarebbe potuto succedere anche a me. Perché dopo il primo parto, più complicato del previsto io non stavo in piedi e, se mi alzavo, svenivo. Se fosse accaduto mentre avevo un neonato in braccio?
Eppure tutti si aspettano di vederti subito sorridente, in forma e scattante, con la situazione sotto controllo. Se vacilli, se chiedi aiuto, è perché sei inadeguata, hai voluto la bicicletta e ora pedala!
Si aspettano che tu sia performante e in grado di riprendere in mano tutto ciò che facevi prima, ma la realtà è che speri nella vista di tua suocera per arrembarle il bambino e farti una doccia come si deve. Pretendono che tu ti vesta a festa, anche se non hai ancora smaltito la pancia, vada dal parrucchiere e magari balli anche a quel matrimonio a cui non puoi mancare, portandoti l'antidolorifico nella borsetta e un cuscino di gommapiuma perché le panche in legno della chiesta sono ancora troppo da sopportare.
Non siamo wonder woman, se usciamo dall'ospedale a due giorni dal parto non è perché siamo tornate come 9 mesi fa, ma perché il nostro letto serve a qualcun'altra, anche se siamo stravolte, anche se siamo spaventate, anche se ci tirano i punti.
Sono cresciuta, come tutti i bambini, con limiti e divieti. Alcuni ineccepibili e intramotabili, altri, a distanza di parecchi lustri, per me ancora incomprensibili.
Per esempio: le merendine. A casa mia non erano vietate in assoluto, ma soltanto alcune, che oggi mi sembrano davvero simili a quelle permesse.
Ammetto che tra i 6 e i 10 anni non mi è mai venuto in mente di leggere e confrontare le etichette, per aprire un dibattito portando dati concreti a sostegno della mia tesi.
Sono quindi cresciuta con il teorema incontestabile: Tegolino sì, Girella no. Il Soldino va bene, il Buondì al cioccolato fa malissimo (non me ne voglia la Motta. Per compensare questo torto, al nano grande compro le Girelle!).
Ho assaggiato il mio primo Buondì al cioccolato dopo i 20 anni, quando ho iniziato a lavorare: ne ho comprata una confezione intera, che ho nascosto nella cassettiera della scrivania in ufficio, perché non ero ancora andata a vivere da sola, e non volevo portare a casa l'arma del delitto.
Non sono mai stata una bambina né un adolescente ribelle, ero diligente, forse anche un po' secchiona, troppo desiderosa di compiacere e accontentare per contraddire, con la perenne sensazione di non essere - più che di non fare - mai abbastanza per andare bene.
Oggi, che mi trovo dall'altra parte della barricata, per quanto madre rigida e inflessibile su alcuni aspetti, sono totalmente disinteressata a mettere paletti su altri, quelli, appunto, che ancora oggi sono per me un garbuglio di nonsense.
Le scarpe, tanto per fare un altro esempio: non costringo i miei a indossare calzature in cui sono scomodi o a disagio. Volete andare a scuola con le sneakers? E sia!
Volete scegliere il taglio di capelli? Non c'è problema, i capelli ricrescono e si aggiustano, perciò, nei limiti del buon gusto, scegliete voi.
Preferite la felpa verde a quella blu? A me non cambia nulla, basta che non usciate come arlecchini che si sono vestiti al buio, o in maniche corte anche a gennaio, come tentate spesso di fare.
Saranno per questo ragazzi irrispettosi, maleducati e anarchici? Non penso. Sul rispetto, sull'educazione e sull'attenersi alle regole, non transigo.
Saranno più sereni perché possono andare in giro vestiti e pettinati in modo da sentirsi a proprio agio nel proprio corpo e nei propri abiti? È esattamente quello che spero, è la sensazione che vorrei provassero ogni giorno, e che a me è mancata e, spesso, manca ancora.
Soltanto con l'età ho acquisito più indipendenza e un certo, sano, spirito di ribellione.
Non nei confronti delle regole, ma delle imposizioni a cui non trovo una spiegazione valida e che non condivido.
Oggi, a 42 anni (quasi 43...sigh!), in barba ai diktat di sobrietà e ai tentativi di invisibilità, come atto di estremo coraggio e ribellione, ho comprato il mio primo rossetto. È color "rosso ciliegia", di una nota marca ma molto economico, perché probabilmente, il coraggio di indossarlo invece non lo troverò, e così almeno non avrò buttato via troppi soldi.
P.S. Adesso ho due nani perplessi e sconcertati a rimproverarmi per il mio ardire, tra un Mamma si nota troppo e un Mamma, ma hai il rossetto... perché?
Vagando su internet durante una pausa pranzo troppo breve e troppo fredda per uscire a fare un giro, la mia attenzione è stata catturata da un'affermazione che diceva indicativamente così: "Sai di essere diventata madre quando abbandoni tutto per i tuoi figli".
Mi è anche capitato di vedere il video di una donna e mamma del mondo dello spettacolo che, trattenendo a stento le lacrime, racconta che quando usciva per andare dal parrucchiere o a cena con suo marito, pur avendo a casa un bambino malato, ha dovuto subire critiche e insulti, il più tenero dei quali era "fai schifo".
Sono rimasta sconcertata dalla facilità con cui si giudica la vita altrui senza un minimo di empatia.
Sicuramente diventare madre cambia prospettive e priorità, ma non smettiamo certo di essere persone, donne, mogli, amiche. Certo, avremo meno tempo per noi stesse e per gli altri - anche in base alla disponibilità di nonni, baby sitter, parenti e aiuti vari, orari lavorativi - e quel poco che resta potrà essere gestito in modo diverso rispetto a prima, e c'è chi sarà felice di dedicarsi esclusivamente al ruolo di mamma. Ma non è così per tutte, e non deve nemmeno esserlo.
C'è chi vede come le ore in ufficio come una pausa gratificante da pianti e pannolini, chi sente il bisogno di fare sport o anche solo una passeggiata, per trarne beneficio fisico ma anche mentale (rientro in questa categoria), chi ci tiene a continuare a fare la pedicure e i colpi di sole, chi magari riesce addirittura a organizzare un week end romantico o con le amiche.
Siamo meno madri, o madri peggiori, per questo?
Non ho la risposta giusta, vivendo con perenni sensi di colpa e insicurezze, ma ho la mia risposta ed è sicuramente no.
Non c'è niente che mi dia più gioia che stare con i miei bambini, ma a volte non mi basta, e ho bisogno di fare qualcosa "solo per me".
Se una sessione di cardiobox o le unghie laccate di rosso ci fanno sentire meglio, il nostro benessere ricadrà su chi ci sta intorno, prole in primis. Una mamma che torna sorridente e rilassata dopo un massaggio per me è preferibile a una mamma che sbuffa perché è stanca morta e avrebbe bisogno di una pausa. Se per una volta vogliamo andare a cena in un ristorante child free invece che in pizzeria con prole al seguito, facciamolo!
Comunque, presto, i nostri piccoli e morbidi bambini diventeranno adolescenti scontrosi, e avranno ben altro da rinfacciarci, con o senza motivo!
Il nano piccolo gioca a calcio.
Dopo una breve parentesi di nuoto e rugby, quando ancora non aveva facoltà di scegliere perché troppo piccolo, ha deciso che voleva giocare a calcio e io, se non incoraggiato, l'ho assecondato con tutta la disponibilità possibile (non solo mia, a dire la verità: per fortuna ci sono anche il papà e i nonni che - soprattutto in settimana - lo accompagnano e lo riprendono).
Da qualche anno, ha scelto il ruolo di portiere. Non so dire per quale motivo, forse perché è un po' incosciente e non patisce colpi e atterraggi quando si butta.
Quando, il giorno dell'epifania di qualche anno fa, finì al pronto soccorso con un dito fratturato, asciugate le lacrime precisò orgoglioso: "Però il rigore l'ho parato".
Ammiro la sua passione, il suo coraggio (perché, per me, per buttarsi da un lato sfiorando un palo tutt'altro che soffice, ci vuole coraggio), il modo in cui si diverte in campo. Mi fa tenerezza vederlo lì, solo, in attesa che l'azione arrivi da lui.
Però... però soffro. E tanto! Soffro a ogni partita, perché il portiere è sempre un po' più colpevole degli altri, in caso di errore.
Un gol sbagliato non cambia il risultato in positivo ma neanche in negativo, un passaggio fuori misura non crea sempre problemi, un buco della difesa può succedere. Ma se il portiere non para, la squadra subisce gol e va in svantaggio...
Un ex giocatore professionista, il numero uno, almeno nel mio cuore, una volta mi ha spiegato che se una squadra prende tanti gol dipende non soltanto dal portiere, ma anche dal centrocampo che non fa filtro e dall'attacco che non tiene su la palla.
Sicuramente ha ragione (non conosco fonte più autorevole per tali rivelazioni), ma tant'è... a ogni tiro io incrocio le dita.
Per fortuna, ha ottimi allenatori e il mio ruolo è solo quello di applaudire e incoraggiare, il nano piccolo e tutta la squadra, e di chiudere gli occhi e pregare "fa' che la pari" ogni tanto.
Quando ero bambina, il concetto di essere buoni genitori si poteva riassumere in "metterti un tetto sulla testa, i pasti in tavola, farti andare a scuola e in vacanza d'estate".
Effettivamente nessuna di queste cose mi è mai mancata. Ho sempre mangiato tanto e bene, dormito in letti comodi, finito l'università e non ho mai messo piede in un centro estivo.
Se hai tutto questo, non ti manca niente. Taci e non ti lamentare, anzi, ringrazia.
Pur augurandomi che ogni genitore possa dare tutto questo ai propri figli, diventare madre ha, per così dire, ampliato il mio punto di vista.
Penso che a un figlio si dovrebbero dare, oltre alle sicurezze materiali, anche quelle meno tangibili, come accettazione, conforto, ascolto, comprensione, condivisione, amore incondizionato e indipendente da successi e fallimenti.
Penso che per i miei figli, sapere di potermi fare le domande che desiderano sia altrettanto importante che avere un piatto di pasta sulla tavola. Che sapere che non sarà un brutto voto a farmi smettere di incoraggiarli abbia lo stesso valore di un letto comodo e di una coperta calda. Che sapere che un errore non me li farà amare di meno non sia meno importante di una vacanza al mare o in montagna.
Sono consapevole che non avrò tutte le risposte, che perderò la pazienza e che pretenderò da loro impegno in quello che fanno, ma so anche che voglio accogliere tutte le loro domande, le loro incertezze e le loro debolezze senza giudizi... e se mi mancheranno le risposte, le cercheremo insieme.
Ci sono sere in cui non riesco a finire il secondo episodio di una serie TV, per quanto avvincente, perché mi si chiudono gli occhi, e a stento riesco a terminare il capitolo del libro che sto leggendo senza crollare nel sonno.