La mamma del portiere

Il nano piccolo gioca a calcio. 

Dopo una breve parentesi di nuoto e rugby, quando ancora non aveva facoltà di scegliere perché troppo piccolo, ha deciso che voleva giocare a calcio e io, se non incoraggiato, l'ho assecondato con tutta la disponibilità possibile (non solo mia, a dire la verità: per fortuna ci sono anche il papà e i nonni che - soprattutto in settimana - lo accompagnano e lo riprendono).

Da qualche anno, ha scelto il ruolo di portiere. Non so dire per quale motivo, forse perché è un po' incosciente e non patisce colpi e atterraggi quando si butta.

Quando, il giorno dell'epifania di qualche anno fa, finì al pronto soccorso con un dito fratturato, asciugate le lacrime precisò orgoglioso: "Però il rigore l'ho parato".

Ammiro la sua passione, il suo coraggio (perché, per me, per buttarsi da un lato sfiorando un palo tutt'altro che soffice, ci vuole coraggio), il modo in cui si diverte in campo. Mi fa tenerezza vederlo lì, solo, in attesa che l'azione arrivi da lui.

Però... però soffro. E tanto! Soffro a ogni partita, perché il portiere è sempre un po' più colpevole degli altri, in caso di errore. 

Un gol sbagliato non cambia il risultato in positivo ma neanche in negativo, un passaggio fuori misura non crea sempre problemi, un buco della difesa può succedere. Ma se il portiere non para, la squadra subisce gol e va in svantaggio... 

Un ex giocatore professionista, il numero uno, almeno nel mio cuore, una volta mi ha spiegato che se una squadra prende tanti gol dipende non soltanto dal portiere, ma anche dal centrocampo che non fa filtro e dall'attacco che non tiene su la palla.

Sicuramente ha ragione (non conosco fonte più autorevole per tali rivelazioni), ma tant'è... a ogni tiro io incrocio le dita.

Per fortuna, ha ottimi allenatori e il mio ruolo è solo quello di applaudire e incoraggiare, il nano piccolo e tutta la squadra, e di chiudere gli occhi e pregare "fa' che la pari" ogni tanto.

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