Oggi il nano grande ha preso due insufficienze in altrettante interrogazioni. Me lo ha comunicato il registro elettronico prima che potesse farlo lui.
Mi è salita una rabbia sproporzionata: per fortuna sono al lavoro e avrò qualche ora di tempo per smaltirla prima di vederlo e parlargli di persona. So che sarà già abbastanza dispiaciuto.
Riflettendo, mi sono resa conto che la rabbia non è dovuta ai risultati in sé: ha un'ottima media, di norma prende sempre voti alti e professori e professoresse ai colloqui erano tutti soddisfatti. Che la reazione più sensata sarebbe pensare che non dipende da me, che è lui a doversi impegnare maggiormente, che potrà sicuramente rimediare nelle prossime occasioni, che un cinque non è certo una tragedia. Ma è una miccia che innesca il mio senso di colpa.
Perché non riesco a seguirlo quotidianamente nei compiti, perché quando torno a casa dopo 10 ore di lavoro non gli chiedo di ripetermi la lezione perché desidero solo un momento di decompressione e di silenzio. Perché, anche quando ci sono, faccio troppe cose insieme: con una mano stiro, con l'altra scrivo la lista della spesa, con un orecchio ascolto il nano grande e con l'altro il nano piccolo.
Sono loro che devono imparare ad autogestirsi, come ho sempre fatto io in tutta la mia carriera scolastica. Eppure... eppure il senso di colpa grava ancora su di me.
Dicono che del tempo non conti la quantità, ma la qualità: ma io mi sento manchevole anche nella qualità.
È il senso di colpa delle madri che lavorano, o almeno è il mio, che non mi sento abbastanza presente, attenta. Madri, non genitori, giacché non ho mai conosciuto un padre con i sensi di colpa perché il lavoro non gli lascia il tempo di seguire i propri figli nei compiti.
Come ha scritto la giornalista americana Amy Westervelt, nel suo libro “Dimentica di avere tutto”: Ci aspettiamo che le donne madri lavorino come se non avessero figli e crescano i loro bambini come se non lavorassero.
È esattamente così, ma io non ci riesco.