Del lockdown della scorsa primavera il ricordo peggiore di tutti gli altri è senza dubbio la didattica a distanza, di due figli, in contemporanea al mio cosiddetto smart working (il fatto che non avesse nulla di smart è un altro discorso). Più della paura dei contagi, più della forzata reclusione.
La distribuzione di tablet e PC e, all'occorrenza, dei cellulari, la connessione che manca, la stanza virtuale che non si trova, l'organizzatore che non ti ammette.
Il suono delle voci dei bambini che si sovrappongono, urlando Maestra mi vedi? Maestra mi senti? Cosa devo scrivere? La voce della maestra che rimbomba con un'eco infinita.
La chat di classe impazzita: non vedo, non sento, mi sono disconnesso, qual è il link?
Oggi, a distanza di un anno e mezzo, risentire questi suoni mi provoca una angoscia indescrivibile: non soltanto per la situazione contingente, che passerà: tra qualche giorno i bambini torneranno a scuola, ma per quella più generale da cui ancora non siamo usciti, altro che "andrà tutto bene".
Mi consola l'indispensabile solidarietà di un'indispensabile amica che con me condivide questo dramma della connessione, avendo i figli in classe con i miei, e mi scrive "Provo un senso di vomito nel tornare a sentire maestra non sento".